Evoluzione dello scenario balcanico occidentale e primato dell’Italia nella costruzione di un nuovo equilibrio capace di cambiare la geopolitica del Mediterraneo. Intervista a Federico Niglia, Professore di Storia contemporanea presso l’Università Internazionale «Guido Carli» di Roma
Ci sono pagine della storia europea che richiedono, prima della scrittura, ulteriori approfondimenti. Rispetto al nostro contesto nazionale, lo scenario dei Balcani occidentali, un contesto emblematico per la stabilità politica dell’UE, ‘ci sta di fronte’, nel tempo e nello spazio.
Il caso dell’Albania offre, in questo senso, un invito all’indagine per quelli che sono gli aspetti oscuri del suo passato, al cuore della regione balcanico-mediterranea: dalle diaspore cicliche della sua popolazione sotto un dominio turco lungo quasi cinque secoli, all’occupazione italiana (1939-1943); dal protrarsi delle espulsioni forzate e delle ‘liquidazioni’ (sotto la Serbia indipendente, dal 1878; in Kosovo, a Tivari, nel 1945; nella regione di Drenica, nel 1998, da parte delle Forze speciali di Milošević)all’isolamento dall’Europa e dall’URSS, quest’ultimo deciso dal regime di Enver Hoxha già nel 1960 (con uscita ufficiale dal Patto di Varsavia nel 1968), ai difficili anni della transizione post-comunista che videro, negli anni ’90, l’esodo di verso le coste pugliesi. Frattanto, nella notte del 21 dicembre 1990 sparisce dal centro di Tirana la statua di Stalin. Quattro mesi più tardi, in data 31 marzo, sono indette le prime elezioni libere, con il Partito Socialista – già Partito del Lavoro – di Ramiz Alia, prudente successore di Hoxha, vittorioso al 70 % grazie a un efficace meccanismo di controllo del voto nelle aree rurali del Paese. Nello stesso anno, legato all’immagine-simbolo del mercantile «Vlora», carico di 20 mila persone, attraccato nel porto di Bari, la cooperazione tra Italia e Albania muove i primi passi.
Come scrive il Generale Carlo Jean, esperto in geopolitica e strategia militare, dopo la crisi economica e politica degli anni ’90, che ha pregiudicato una presenza italiana in tutta la regione occidentale tale da «favorirne il consolidamento economico ed evitare il contagio della corruzione e della criminalità organizzata balcaniche», gli anni 2000 rappresentano un cambiamento di segno positivo, «anche per il constante sostegno dell’Italia all’integrazione dei Balcani occidentali nell’Europa e nella NATO, alle Operazioni Pellicano e Alba in Albania e alla presenza industriale, commerciale e bancaria italiana in tutte le Repubbliche ex-jugoslave». Pellicano (1991-1993) fu un’operazione militare che impiegava un contingente di 1000 uomini, tra Valona e Durazzo, incaricati di assicurare il trasferimento e la distribuzione di generi sanitari e alimentari forniti ai magazzini di Stato dal nostro governo (un compito esteso, negli anni 1992 e 1993, agli aiuti provenienti dalla Comunità Economica Europea). Diversamente, la missione multinazionale Alba, appoggiata dall’OSCE e dalle Nazioni Unite, in seguito al tragico naufragio della motovedetta «Katër I Radës» – occorso nel Canale di Otranto il 28 marzo 1997 e che provocò la morte di 108 persone – traduceva ‘sul campo’ una strategia di «stabilizzazione» e di contenimento dei flussi migratori irregolari provenienti dalle coste albanesi.
Per l’Italia, erano gli anni della ‘riscoperta’ dell’Albania. Anni durante i quali l’apertura del mercato e il basso costo della manodopera, con tutte le criticità della vecchia burocrazia e i vuoti giuridici esistenti, attrassero la piccola impresa italiana. La mobilità albanese, oltre a riconfigurare lo statuto delle comunità socio-linguistiche dell’Arbëria nel nostro Meridione, produsse una crescente convergenza culturale tra italiani e albanesi (soprattutto tra le nuove generazioni). Il mutamento politico-istituzionale creò anche le basi per una presenza consistente da parte delle ong italiane.
La cooperazione italiana, al contributo militare (e, a livello non governativo, emergenziale e di assistenza alle famiglie che emigravano), ha affiancato una successione di «Accordi» firmati tra il 1992 e il 1995: intese di collaborazione economica, industriale e commerciale, accordi relativi ai trasporti aereo e marittimo, accordi finanziari, relativi all’Istruzione pubblica e alla collaborazione militare, oltre a un «Trattato di Amicizia e Collaborazione» (1995), in vigore dal 5 ottobre del 2000.
Dopo il crack, nel 1997, delle organizzazioni finanziarie piramidali (che porta allo scoppio di nuove violenze e alle dimissioni del Presidente Sali Berisha, leader del Partito Democratico), l’Albania conosce una crisi istituzionale che, dopo vari cambi di timone, vedrà – tra il 1999 e il 2005 – l’avvicendarsi di tre governi accomunati da una politica favorevole all’integrazione euro-atlantica, all’economia di mercato e a una relazione preferenziale con l’Italia. Le ‘piaghe’ da combattere rimangono la corruzione interna, le istituzioni da risanare e la criminalità organizzata. Intanto, sia le esportazioni italiane (il 33% del totale) verso l’Albania che la presenza strategica dell’Italia sul suo territorio si intensificano, mentre la crescita del Paese denota – a partire dal 1997 – un’impennata degli scambi e, perciò, dell’apertura internazionale, che aumentano più velocemente della produzione, come è avvenuto per altri Paesi protagonisti della transizione.
Come fa notare Federico Niglia, Professore di Storia contemporanea presso l’Università Internazionale «Guido Carli» di Roma, nel suo contributo a un significativo Rapporto dell’«Istituto Affari Internazionali» (IAI) del 2009, di cui è anche il curatore, « l’Albania è assurta a partner strategico dell’Italia, che partecipa al processo di modernizzazione del paese attraverso una partnership di ampio respiro in campo energetico» (si veda, in proposito, la risalente intesa tra ENI e Gazprom, oggetto di un nuovo Memorandum del marzo scorso). Tale cooperazione, dieci anni or sono, ha rafforzato la presenza degli imprenditori e delle banche italiane (citiamo, ad esempio, le partecipazioni della San Paolo Imi alla Banca Italo-albanese o all’acquisizione di Dardania Bank da parte della Banca Popolare Pugliese). Quale primo partner commerciale dell’Albania, secondo i dati forniti dal Ministero degli Esteri, «L’Italia da sola assorbe il 54,57% delle esportazioni albanesi ed è inoltre il principale fornitore, con un’incidenza del 29,28% sull’import complessivo». Malgrado la recente carenza nei settori delle telecomunicazioni e assicurativo, dovuta a varie criticità come la corruzione e la mancanza di infrastrutture, «la nostra presenza è assicurata da circa 500 imprese piccole e medie, da due grandi banche, Intesa San paolo e Veneto Banca, e da gruppi industriali affermatisi principalmente nei settori dell’agroalimentare, del cemento e dell’energia».
Nel Rapporto IAI citato – e intitolato: «L’Albania verso l’Unione Europea: il ruolo dell’Italia» – Niglia scrive che «A livello politico, l’Italia si è posta l’ambizioso traguardo di affermarsi come partner privilegiato dei Paesi dei Balcani occidentali, puntando all’ingresso di questo gruppo di Stati nell’UE» (previsto, per l’Albania, nel 2018). «In questo modo l’Italia punta a spostare l’asse dell’Unione Europea riducendo il predominio anche geopolitico dell’asse franco-tedesco».
L’evoluzione dei rapporti con quella che, con una diffusa ‘abdicazione’ di prospettiva storica, è stata definita «polveriera d’Europa», ha nell’Italia un ruolo di attore cruciale rispetto al potenziale spostamento di quell’asse verso Sud.
Ma quali sono, allora, le ragioni profonde di un ravvicinamento dell’Italia al contesto adriatico-balcanico e come si è evoluto il processo di modernizzazione dell’Albania? Inoltre, quali sono, a livello geopolitico, gli ambiti di interesse e le principali sfere di influenza? Lo abbiamo direttamente domandato al Curatore del Rapporto.
L’Albania e, più in generale, i Balcani rientrano nella visione italiana a partire dagli anni Novanta, innanzitutto perché rappresentano un problema, mostrando una conflittualità intrinseca che obbliga l’Italia, non più coperta in questo ambito dalla superpotenza americana – anche perché si tratta di questioni regionali – , a proiettarsi con il suo strumento politico, economico e persino militare, per garantire una maggiore stabilità di quell’area. Si tratta di un passaggio, per certi versi, obbligato.
Le crisi degli anni ‘90 generano instabilità e presentano casi evidenti di violazioni di diritti umani, perciò sollecitano il nostro Paese, nella consapevolezza del fatto – ed è una caratteristica generale di queste crisi – che le potenze regionali, in questo caso l’Italia, si devono gestire da sole perché non si può attendere che qualcun altro, come nella Guerra Fredda, intervenga. Questo è un primo aspetto significativo.
Come avviene questo processo?
L’Italia si trova ‘trasportata’ nella ex-Jugoslavia, sotto la spinta accelerata dello sfaldamento totale dell’Albania, la quale, più che produrre una guerra civile, produrrà un flusso di migranti, che sono i primi con cui l’Italia, per dir così, ‘avrà a che fare’ rispetto a una stagione che è ancora in corso. Poi, su questo obbligo a intervenire si innesta la scoperta di un’opportunità. Mi riferisco, in termini politici, alla capacità di esercitare un’influenza, cioè di plasmare quello che ‘sta di fronte’ a noi secondo criteri che si ritengono ‘corretti’, ‘giusti’ e dunque validi per la transizione di nazioni che si pensano amiche. L’Albania, certamente, emerge con particolare rilevanza nel contesto dei Balcani occidentali: tradizionalmente, infatti, l’Albania interessa l’Italia e risulta meno problematica di quella che era la Jugoslavia.
Infine, c’è un discorso di natura economica: a partire dagli anni ’90, esso significa, principalmente, produzione e delocalizzazione. A questo si sovrappone anche un discorso di interscambio commerciale. Queste sono le ragioni che spiegano la proiezione dell’Italia verso i Balcani e, segnatamente, verso l’Albania.
Come si presentano i trend di sviluppo dei Balcani?
Il discorso è articolato. I Balcani occidentali, nella prima metà degli anni ’90, generano instabilità. Mi viene in mente la famosa frase di Churchill: «I Balcani producono più Storia di quanta non riescano a metabolizzarne», e tale instabilità ne è una conferma evidente. Da qui l’idea di una serie di programmi che vedono la nascente Unione Europea sempre più proiettata verso l’Albania, insieme all’Alleanza atlantica – iniziamo a vederne i frutti. L’UE non ha proseguito altrettanto rapidamente in Serbia, nella ex-Jugoslavia, per i motivi che sappiamo: la questione del Kosovo, la polarizzazione, ecc. Ora sembra, però che il trend sia di nuovo in ripresa, per cui UE e NATO ritornano verso quest’area.
Tuttavia, per l’UE, c’è un problema di fondo: quando si parla di allargamento ai Balcani occidentali, diversamente dai Balcani orientali (Romania e Bulgaria per prime), che sono entrati nell’Unione senza troppo ‘rumore’, si dice che, se entrano a farne parte dell’UE, l’Unione interiorizza un’area conflittuale.
Il secondo problema è dato dalla natura spesso formale dell’adattamento ai principi, alle politiche e ai criteri dell’Unione Europea. Ossia: formalmente i compiti vengono svolti, per cui c’è un processo di convergenza; sostanzialmente, però si possono porre problemi circa il rispetto di questi criteri. Sono questioni reali che spiegano anche perché il processo di allargamento verso i Balcani occidentali sia stato molto più lento rispetto a quello intrapreso verso l’Europa orientale. Se, interrogandoci, guardiamo alla vicenda in chiave storica, noteremo che tutti questi Paesi erano, in vario modo, sotto il ‘tacco’ dell’Unione Sovietica. Quantomeno, erano tutte democrazie popolari, perciò il crollo del comunismo ne ha travolto i regimi più o meno allo stesso modo. Nondimeno, volgendo l’attenzione ai tempi della transizione, troveremo che, nel 2004, c’è il grande allargamento all’Europa orientale, mentre stiamo parlando adesso di integrare l’Albania -secondo una convergenza ormai certificata – e, in potenza, anche la Serbia.
Perché questo scarto temporale?
Proprio per i motivi che dicevamo prima: i Balcani occidentali presentano una conflittualità pregressa, ma anche latente, nonché un problema di adattamento. A quanto sembra, in Europa centro-orientale queste criticità non hanno posto.
Si tratta di una resistenza all’adattamento di natura prettamente politica, causata dalla natura complessa di tale conflittualità, oppure essa è anche legata alle dinamiche dello sviluppo, alla ‘modernizzazione’?
Sussistono, sicuramente, entrambi i motivi. Di fatto, da un lato c’è la questione legata alla conflittualità politica, ma anche etnica; dall’altro, direi soprattutto che il problema si rivela nelle macchine statali, nelle strutture amministrative e giudiziarie che richiedono un’attività di implementazione significativa. Ragion per cui, la problematica dovrà leggersi nella sua grande complessità: non è solo uno scontro sull’ingresso di Paesi più ‘dinamici’ – passatemi questo eufemismo – dal punto di vista della dialettica politica, ma gli stessi Paesi hanno sistemi normativi, amministrativi e giudiziari più complessi, che richiedono un adattamento più laborioso.
Professor Niglia, quali sono i campi di intervento (energia, incremento di sistemi produttivi, reti di infrastrutture, istituti di welfare) e le principali criticità applicative di natura politico-istituzionale, economica e finanziaria riscontrate nell’attività di sostegno intrapresa da parte dell’Italia? Nel rapporto IAI del 2009, Lei parlava di alcuni limiti di questa politica e dei problemi connessi alla durata. Come si è evoluta la situazione dal 2009 a oggi?
Devo dire che, in linea generale, dal 2009 ad oggi sono stati fatti molti progressi – mi riferisco, in particolare, proprio all’Albania. Peraltro, più che ragionare per ‘settori’ o ambiti problematici, sottolineo che il grande problema è quello della rule of law, relativo alla capacità di creare sistemi istituzionali funzionanti all’interno dei quali il cittadino e tutti i soggetti giuridici (le imprese, le rappresentanze produttive, ecc.) si possano muovere all’interno di una cornice di diritti omogenea.
Questo è un problema che però, paradossalmente, non caratterizza solo l’Albania, ma che riemerge periodicamente nella stessa Unione Europea: ci sono tradizioni giuridiche diverse, modi diversi di concepire i rapporti economici, e così via. Teniamo presente che, nella sua formulazione iniziale – quella, per intenderci, del mercato unico – l’UE è formata da 6 Paesi. Di questi, solo 3 sono ‘grandi’: Italia, Repubblica Federale Tedesca e Francia, ai quali si aggiungevano i 3 del BENELUX. Ora, invece, ci troviamo a dover armonizzare un numero che si avvicina a 30. Pensandoci, ciò comporta anche geografie diverse, sensibilità diverse.
Questa, però, può essere anche una buona opportunità. Il terreno balcanico è un terreno fondamentale, ad esempio, in merito all’importanza delle infrastrutture energetiche, di certo uno dei settori più dinamici e interessanti. E non è il solo. Una cosa importante da sottolineare è che, se l’Albania degli anni ’90 era per l’Italia un terreno di opportunità per i bassi costi del lavoro, per la possibilità di delocalizzare, ecc., ora si può fare un discorso più strutturato. Non è un caso che l’Albania e, più in generale, tutta l’area sia diventata strategica per quanto riguarda le infrastrutture elettriche, per lo sfruttamento del gas e così via. L’Europa ‘passa fisiologicamente’ di là. E una mancata meridionalizzazione dell’Unione Europea crea un vuoto importante.
Cosa implica ‘meridionalizzare’ l’Europa?
La mancata meridionalizzazione dell’UE non è soltanto un perdita per l’Italia. È ovvio che, se ciò avvenisse, l’Italia acquisterebbe centralità: non diventerebbe potenza periferica, a livello geografico dell’UE, ma un ‘cuore’, costituendo un raccordo fondamentale tra mondi diversi. L’Italia, membro fondatore dell’Unione, rappresenterebbe, con la proiezione meridionale, un ottimo ponte verso un mondo balcanico particolarmente interessante, nonché una potenziale sponda a Sud del Mediterraneo, con la ripresa dei partenariati. La considerazione è importante anche perché, se quel mondo resta fuori – effetto che implica anche la capacità dell’UE di offrire un modello di stabilità – , allora non si aiuta la stabilizzazione di quelle aree e si pone un problema alla frontiera, immediatamente… E data l’attuale porosità delle frontiere, che conosciamo tutti per motivi tristi che sono legati all’insicurezza e al terrorismo, ci stiamo semplicemente condannando a importare instabilità senza gestirla.
Rispetto, invece, ai limiti della politica economica italiana in Albania, nel citato Rapporto accennava anche alla difficoltà di coordinare gli obiettivi delle grandi compagnie italiane con quelli del sistema Paese. Sono mutate queste condizioni, ossia esiste un nuovo equilibrio o la criticità permane?
Qui, invece, mostro un certo ottimismo. Una delle critiche che noi muovevamo – ma era l’onda lunga dei primi 2000 – era quella dell’assenza di una regia che gestisse interessi economici molto forti (non parliamo più di piccola e media impresa, bensì di grossi comparti) e gli attori pubblici, che potevano essere il Ministero degli Esteri, quello dello Sviluppo economico, ma anche le Regioni. Inoltre, quando scrivevamo, era in corso una riforma progressiva del Titolo V della Costituzione, che ‘catapultava’ le Regioni sulla scena internazionale. Tutti questi attori giocavano una loro partita. Guardando a quelli che sono i progetti infrastrutturali, ad esempio mi viene in mente la politica di Terna, quindi la creazione di reti energetiche verso i Balcani. Lì c’è un consistente interesse imprenditoriale, che però, a mio modo di leggere, ben si sposa con quelli che sono gli obiettivi strategici del Paese volti all’integrazione e alla proiezione del nostro sistema verso realtà dinamiche come quelle balcaniche. Questo è un esempio, ma potrei citare anche la cooperazione inter-universitaria. Se vogliamo rimanere sull’aziendale ‘forte’, mi sentirei di spendere parole di maggiore ottimismo.
È vero, la cabina di regia della politica economica estera italiana rimane ancora un obiettivo da raggiungere: ci sono frizioni e complessità, soprattutto esistono moltissimi «Tavoli» che, a volte, non si armonizzano. Teniamo anche presente che ci sono Ministeri a volte concorrenti: uno per tutti, il rapporto tra Ministero degli Esteri e Ministero dello Sviluppo economico, non sempre ‘sciolto’ e chiaramente definito. In ogni caso, almeno a livello di grandi gruppi, c’è una attività più sinergica.
Buono è anche il discorso che riguarda il raccordo tra le istituzioni nazionali e regionali e la rete delle piccole e medie imprese, benché si sconti ancora una certa frammentazione: il trend è positivo, ma, ad esempio, c’è sovrapposizione tra vari soggetti, uno per tutti il caso della convivenza tra le nostre strutture diplomatiche e la rete del defunto ICE («Istituto per il Commercio con l’Estero»), ora trasformato in Agenzia: qui, forse, un’opera di ulteriore razionalizzazione potrebbe risultare pagante, anche per gli interessi delle imprese.
Questo è, per intenderci, un problema esclusivamente italiano?
Il problema deve essere solo nostro: non abbiamo la pretesa di imporre una riforma che razionalizzi il sistema albanese, che farà il suo percorso. Ognuno si sceglie il proprio modello: se uno vuole un ministero per ogni questione, è una sua scelta più o meno costosa più o meno efficiente, tuttavia ascrivibile alla libera determinazione dei partiti e degli elettori di quel Paese.
Il peso del retaggio coloniale si fa sentire ancora – si può ‘misurare’, in qualche modo – o possiamo dire che sia stato superato?
Stiamo parlando di Paesi dinamici che guardano fortemente al futuro. Certo è che molta storia di quel periodo resta ancora da scrivere. Le truppe italiane in Albania sono una storia ancora non scritta. Personalmente, come storico, la scena che mi sono trovato di fronte è ancora molto lacunosa.
Resto convinto che, da una parte, guardare avanti è un diritto. Forse, è anche qualcosa che ti permette di guardare indietro con maggiore serenità, da ambo le parti. Le vicende sanguinose sono tragiche per tutti, anche per il carnefice. Sono, però, assolutamente convinto che due nazioni che dialogano costruttivamente sono anche in grado di affrontare il passato nel modo corretto. Per cui, vedo una correlazione tra un buon andamento delle relazioni politiche e una discussione sul passato, non certamente una sua rimozione.
Fonte Originale: http://www.lindro.it/italia-albania-ovvero-spostare-lasse-delleuropa/
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